Vita

Dalla ragione alla fede

Tratto da Si può (veramente?!) vivere così? di Luigi Giussani citato in Dalla fede il metodo

La verità ultima, il senso della vita, delle cose, è mistero. E’ mistero: cosa vuol dire? Se il senso della vita e del mondo, della realtà, se l’ultimo valore della realtà è mistero; cioè se Dio – che è un altro termine sinonimo di valore ultimo, senso ultimo, destino – è mistero, cosa vuol dire? Che non si può conoscere, che non può essere conosciuto dall’uomo solo con la sua ragione. Che cosa l’uomo con la sua ragione può conoscere?

Intervento – Che c’è.

Solo l’esistenza del Mistero è comprensibile alla ragione. La ragione può arrivare fino a scoprire l’esistenza del Mistero – questo non appartiene alle lezioni che stiamo facendo sulla fede, sulla speranza, sulla carità, ma appartiene a quanto avreste dovuto studiare a Scuola di Comunità su Il senso religioso; i motivi che sostengono la nostra adesione nella vocazione s’appoggiano alle conoscenze che la nostra ragione può avere in campo religioso, nel suo rapporto con Dio -.

Perché la ragione può conoscere l’esistenza del Mistero? Perché la ragione è coscienza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori.

Ma io vorrei recuperare la cosa definitoriamente e definitivamente: questo è un punto su cui non si ritornerà più.

Primo. La ragione è coscienza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori. La ragione è coscienza della realtà, cioè la realtà diventa trasparente, come emergente dentro un bagno di luce – questo bagno di luce si chiama ragione – che fa vedere tutte le sue costole, come una radiografia: fa vedere i fattori di cui la realtà è composta, coi criteri per giudicare se questo costolone è a posto, se è bene, se è giusto, se è nel contesto dell’esperienza che si guarda oppure se è estraneo ad essa.

Secondo. Nella totalità dei suoi fattori, in primo luogo viene l’imponenza dei criteri con cui la ragione giudica se stessa (auto-coscienza), i principi a cui essa s’affida per essere e per esistere. Questi criteri sono quelli che abbiamo chiamato cuore.

In ogni singola esperienza, nella rilevazione dei criteri che giudicano l’esperienza stessa e con cui dall’esperienza si può giudicare il mondo, questa emergenza dei criteri ultimi per la ragione è immediatamente sensibile, è immediata, è automatica. Il cuore è automatico, sentir battere il proprio cuore è automatico. Si chiama esperienza elementare questo cuore che si sente battere. Ogni esperienza implica l’esperienza elementare, cioè ogni esperienza è giudicata da qualcosa che c’è in essa e che si chiama esperienza elementare. Fin qui si capisce?

Intervento – Che cosa significa che i criteri con cui giudicare l’esperienza nascono dall’esperienza?

Esperienza elementare cosa vuol dire? La percezione inevitabile di ciò che l’uomo in tutte le cose cerca: per la soddisfazione di sé (satisfacere); per essere completo, cioè per essere perfectus (perfetto, completo); e perché, dal punto di vista del riflesso estetico, la bellezza si renda visibile, oggetto maneggevole; e perché il tempo sia buono, sia bontà; e perché l’esistere sia felicità, come dice il primo capitolo del libro della Sapienza.

Il contenuto dell’esperienza è la realtà. Un uomo è innamorato della tal ragazza: questo è un fatto, è un fenomeno. Il poeta va in giro con le mani in tasca e giunge a questo fatto. Questo fatto entra sotto il giro d’orizzonte dei suoi occhi, cioè entra dentro l’ambito del suo conoscere. Siccome è un fenomeno reale, diventa oggetto di conoscenza. Questo è l’inizio del fenomeno, ma non è tutto. Di fronte a questo oggetto di conoscenza, gli occhi del poeta si incendiano di curiosità, di simpatia, di approvazione, perché nel fenomeno vede qualcosa che garberebbe avere anche a lui, mentre essendo piccolo poeta quindicenne non l’ha ancora così.

Prova una nostalgia: prova, cioè reagisce con un senso di invidia e con un desiderio di avere anche lui quel fenomeno. Fin qui non è esperienza, ma qualcosa che si prova: un oggetto di conoscenza, una presenza di un pezzo di realtà che si prova, che fa reagire, in questo caso spontaneamente. Se non ha quindici anni, ma ne ha 35 – “in mezzo del cammin di nostra vita” -, anche se non è Dante e se l’oggetto non è Beatrice, la conoscenza di quel fenomeno che gli provoca invidia suscita in lui delle domande. Se lui, col risonatore di Quincke, che è la lealtà… La lealtà dell’uomo originale, la sincerità del bambino, è come il risonatore di Quincke. Sapete che cos’è?

Prima liceo classico, fisica. Avete lì sette tolle e avete un diapason. Per sapere di che nota è questo diapason, lo mettete davanti a quelle tolle e, quando arriva al si, sentite un boato: è un diapason fissato sul si.

Il risonatore di Quincke è tutta la natura di quel poeta che, a quello che prova, all’invidia che prova, alla nostalgia che prova, fa delle domande: “E’ soddisfazione reale? E’ risposta vera al mio bisogno? E’ felicità? E’ verità e felicità?”. Queste sono le esigenze che non nascono in ciò che prova, ma nascono in lui davanti a ciò che prova, in lui impegnato in ciò che prova. Queste domande giudicano quello che prova.

Qui diventa esperienza il puro e il mero provare. La personalità si svolge non per ciò che prova: bambini lasciati a se stessi ne provano di tutti i colori, e mai un uomo saggio chiederà pareri a loro, perché son dei debosciati. “Pur avendo provato tutto, dopo d’aver provato tutto – ne ho fatte di tutti i colori, ne ho provate di tutti i colori -, non so cos’è il vivere, non so cos’è il tempo, non so rispondere alle domande più elementari”… “Ma hai provato tutto! Sei stato libero in tutto!”.

Il provare, il mero provare assurge alla dignità di esperienza in quanto il contenuto che uno prova viene giudicato dalle domande ultime del cuore: sono i criteri del vero, del vero uomo, della vera umanità, del vero destino dell’uomo.

L’uomo è educato dall’esperienza, non da ciò che prova. E’ scriteriato pretendere che il proprio bambino cresca uomo maturo provando tutto quel che vuole. Nessun padre e nessuna madre farebbero così, eccetto i padri e le madri che se ne infischiano: invece d’averlo abbandonato a due mesi sul selciato, l’abbandonano a due anni alla mercè di quel che vuole.

La realtà, in quanto emerge a livello di coscienza ed origina una reazione, fa sentire all’uomo qualcosa, provoca un provare – provare nel senso di sentire -, ma non è ancora esperienza (può essere, infatti, principio di dissociazione e di abominio). Diventa esperienza quando il provare è nel contempo giudicato dai criteri del cuore: se è veramente vero, se è veramente bello, se è veramente buono, se è veramente felice. In base a queste domande ultime del cuore, a questi criteri ultimi del cuore, l’uomo governa la sua vita.

Però trent’anni fa, quando incominciavo a dire queste cose, non credevo che dopo trent’anni avrei dovuto ripeterle tante volte per farle capire a quelli che da dieci anni già camminano sulla stessa strada! Perché si leggono, si crede di averle capite, si passa oltre e non si è seri con le parole che si usano, cioè non si è seri con la realtà che le parole indicano, non si è seri col soggetto che vive della realtà di cui il suo tempo si fa, si forma.

Qual è il punto di partenza per una indagine umana, per una inchiesta sulla verità? Il punto di partenza è l’esperienza. Non quel che si prova, ma l’esperienza, che è quel che si prova giudicato dai criteri del cuore, i quali, come criteri, sono infallibili (infallibili come criteri, non come giudizi: può essere un’infallibilità applicata male). I criteri sono questi, non ce ne sono altri; o i criteri sono quelli del cuore, oppure noi siamo alienati, venduti sul mercato della politica o della economia.

Nell’esperienza, la realtà di cui prendi coscienza e che provi – da cui, cioè, tu sei colpito, shoccato (affectus) – ti fa balzare fuori i criteri del cuore, ti desta il cuore che prima era confuso e dormiva, perciò ti desta a te stesso. Lì incomincia il cammino tuo, perché sei desto, critico. La cultura è coscienza critica e sistematica di un’esperienza; un’esperienza esige sviluppo critico e sistematico. Eran le parole che usavamo tre giorni dopo aver incominciato GS.

La tua domanda indica la difficoltà che l’uomo ha a percepire come il principio del giudizio sull’esperienza sia nell’esperienza stessa: “Sto bene”, “Sto male”, “Mi fa crescere”. Se mi fa crescere vuol dire che mi arma e mi istiga verso quegli ideali il cui desiderio costituisce il mio cuore. Ogni esperienza ha un cuore: il cuore dell’uomo. Un cuore che è unitario in qualsiasi esperienza l’uomo faccia, che è principio di unità dell’uomo stesso e principio di giudizio su tutto quello che l’uomo mangia, ingloba.

Se non fosse vero che i principi con cui giudicare la propria esperienza sono dentro l’esperienza stessa, l’uomo sarebbe alienato, perché dovrebbe dipendere da altro da sé per giudicare sé. Plagio: l’uomo sarebbe un plagiato; plagiato è quel fenomeno di esperienza in cui i criteri con cui l’esperienza giudica se stessa sono inoculati violentemente da qualcosa che sta al di fuori e non provengono da se stessi.

Terzo. E’ vero che la ragione è coscienza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori; è vero che in questa coscienza la ragione genera, rigenera continuamente e utilizza, come criterio ultimo che giudica il rapporto tra l’uomo e la realtà che sta sperimentando, principi che sono dentro di lui, permanenti dentro di lui: il suo cuore. Ma è proprio vero che questo è tutto? Innanzitutto, è proprio vero che la ragione conta tutti i fattori?

La ragione conta i fattori: “uno, due, tre, quattro… dieci!”. Quando avesse finito di contarli, ci dovrebbe essere la conoscenza totale e ultima. Invece no: tutti i fattori son contati e, quando arriva in fondo, manca qualche cosa. Qual è il paragone che la Scuola di Comunità fa? (Sapete cosa dovete fare? Forse dovreste sospendere il primo anno e rifare la Scuola di Comunità, perché è più importante la Scuola di Comunità del primo anno, come conoscenze). Il paragone della sveglia. C’era, dunque, sul tavolo di casa sua, una sveglia. Siccome lui era un bambino molto intraprendente e attivo, curioso, siccome il papà e la mamma erano andati via e c’era soltanto la sorella – che era minore di lui: lui aveva cinque anni, la sorella ne avrà avuti quattro! -, ha visto la sveglia (c’era anche la cameriera, c’era una persona grande in casa), si è guardato attorno, ha preso la sveglia e l’ha smontata tutta. I pezzetti che si potevano contare – lui non sapeva contare fino a questo punto e, soprattutto, non ne aveva la pazienza -, però, contati tutti, erano 353 (con le puntine, i chiodini…). La sveglia era fatta di 353 fattori, ma quei 353 fattori non è più capace di metterli insieme. Perché? Perché gli manca l’idea della sveglia. Era un piccolo bambino e non un orologiaio svizzero. Perciò non poteva metterli insieme: contati tutti i fattori della sveglia, mancava una cosa.

Così, se la ragione conoscesse tutti i fattori del mondo o tutti i fattori di cui una cosa è fatta, mancherebbe ancora un fattore, che è fuori del numero, è fuori dei pezzi, e genera la forma unitaria di cui tutti i pezzi sono funzione, parte.

Perciò, la ragione – che è la mente del bambino – non è capace di fare la sveglia: è capace di analizzare tutti i fattori che la compongono; quando li ha lì tutti, anche se li contasse, capirebbe che non riesce a fare la sveglia perché manca un fattore: la capacità di farla, cioè l’idea della sveglia. Questa è fuori dai 353 fattori. E’ fuori: non è di porcellana, o di ottone, o di zinco, o di rame, o di ferro, è di un’altra cosa! L’idea è di un’altra cosa, è fatta di altro: di spirito.

In tale modo la ragione implica l’affermazione dell’esistenza del mistero, intendendo per mistero un fattore presente in ogni esperienza che non appartiene ai fattori sperimentabili, numerabili, calcolabili dell’esperienza stessa. L’idea della sveglia è oltre il livello dei pezzi. Non è un altro pezzetto: è un’altra cosa. Ma a uno che notasse la questione superficialmente (“Sono 353 pezzi”) mancherebbe ancora qualche cosa. Se non si riesce a far la sveglia, manca quel fattore che mette insieme tutto: manca il senso della sveglia.

Quarto. Fin qui dovrebbe essere tutto evidente – la difficoltà sta nel precisare l’espressione da usare, le parole da usare, perché non si è abituati a studiare quel soggetto, non si è abituati a definirlo, però è un impaccio di parole, non una confusione mentale -, invece qui incomincia la vera confusione che, innanzitutto, ha la tentazione di essere confusione morale, per la mancata virtù della umiltà, del senso del limite, per l’affermarsi di una presunzione (pre-sunzione). Di che presunzione si tratterebbe?

Nella coscienza della realtà che è oggetto della propria conoscenza e, quindi, nell’esperienza che di questa realtà si fa – perché diventa esperienza quando la realtà che si conosce è giudicata nella luce della ragione; la ragione è come una luce che, illuminando la lastra, fa vedere tutti i fattori, tutti i costoloni, ma, insieme, fa vedere una cosa che sembra oscura ma che, puf puf puf!, c’entra dappertutto: è il cuore, sono gli ideali -, la difficoltà inizia come fatica morale, la fatica morale della non presunzione, del non pretendere.

“La ragione è misura di tutte le cose”: in che cosa sbaglia? Sbaglia se non giustifica – per una distrazione, o una approssimazione veloce e impaziente, o una affermazione presuntuosa – che manca qualche cosa, secondo la famosa poesia di Rebora. C’è un punto in cui – psssssss – si sente l’aria uscire: l’abbiamo chiamato “punto di fuga”. Questo sibilo non lo toglie nessuno; chi toglie questo sibilo dice una menzogna patente, oppure è uno che sta sentendo con le cuffie all’orecchio tutto il frastuono di una discoteca, perciò non può sentire altro.

La presunzione dovrebbe essere bloccata: la ragione naturalmente si sarebbe fermata prima, in disagio, perché vuol conoscere tutto, tutti i fattori. Ma la ragione all’evidenza che manca qualche cosa, all’insoddisfazione preferisce la soddisfazione orgogliosa di dire: “Li ho contati tutti”. Una volta che ha scoperto questo psssss, questo sibilo, questa fuoriuscita d’aria che porta in un’altra zona impensata, la ragione dice: “Ma io voglio conoscere anche questo, voglio conoscere di che cosa si tratta. E chi non mi dice che è un fantasma inutile?”. No! Se la tua natura è l’esigenza di conoscere tutti i fattori della realtà, anche l’esistenza di questo inafferrabile è fattore della realtà. E devi avere il coraggio di dire: “E’ fattore della realtà e io non lo conosco. Cioè: io non riesco a conoscere tutta la realtà, la realtà nella sua interezza”.

Capite dove la ragione si incaglia e sbaglia? La ragione, anche quando coglie questa fuoriuscita, anche quando coglie che non riesce a spiegarsi tutto:

  • o pretende di affermare: “Se io mi avanzo, riesco a conoscerlo. Presto o tardi, se avanzo, lo conoscerò”. E questo è contraddittorio con la natura dell’operazione con cui la ragione si scontra con la realtà; in qualsiasi modo si scontri con la realtà, deve ammettere che c’è un punto in cui essa non si può muovere: è il Mistero, Dio, chi fa la realtà. Però la ragione dice: “Io mi muovo ed entro, oso entrare nel Mistero, in quello che mi si para davanti come Mistero e mi offende perché si para davanti a me come a dire: ‘Tu non mi capisci, non mi puoi misurare, son fuori dal gioco tuo!’”. La ragione si ribella a questo, si arrabbia; dal 1200 in poi si è arrabbiata;
  • oppure dice: “Ma no! Sarà un’illusione”. “Poi, come su uno schermo, s’accamperanno di gitto alberi, case, colli per l’inganno consueto”. “E’ un inganno – dirà -, è uno scherzo della natura, un’immaginazione, un sogno”. “E’ un sogno”, come diceva il figlio del pastore quando la giovane moglie del pastore gli parlava dei momenti belli del loro amore. Allora lui c’era stato, e adesso dice: “Ma no, era sogno”.Cosa vuol dire sogno? Questa è premeditata strozzatura della realtà, rinnegamento della realtà.

Comunque, di fronte al Mistero, la ragione non può dire: “Se io ci do dentro, lo conosco”. Questo “darci dentro” sembrò agli uomini del 1700 lì sulla porta: basta aprire la porta e ci siamo. A quelli del 1800 sembrò più vicino ancora. Alla fine del 1800 han detto: “Ci manca soltanto saper affrontare scientificamente la psicologia e la sociologia (a parte il fatto che sono abbastanza sintomatiche) e poi abbiam conosciuto tutto”(davanti alla qual cosa Churchill disse: “Sarebbe meglio che io fossi morto prima”). Invece, nossignore! La ragione, davanti al Mistero, rimane limitata. Può andare avanti miliardi di anni, tentando e ritentando, farà piccoli passi da cimice. Di fronte alla totalità del reale la ragione è impotente ad esaurirla: l’esperienza non è fine a se stessa, non è compiuta.

Quinto. Cosa deve fare allora la ragione di fronte al Mistero? (Perché cercare di conoscerlo è già un porsi fuorigioco, è una bestemmia. Per questo la ragione fa conoscere la realtà all’uomo rendendo sempre più aspra e sempre più feroce la solitudine dell’uomo di fronte alla realtà. E’ soltanto il bambino che si sente bene in compagnia, mentre è innegabile che un’amicizia cosmica è molto più consona alle esigenze del cuore che neanche la solitudine che morde ogni tanto il tempo dell’adolescenza). L’ultima posizione della ragione, l’ultimissima, si chiama, conoscitivamente, categoria della possibilità e, esistenzialmente, mendicanza. Cioè la mendicanza implica la categoria della possibilità.

Giunta a questa esasperazione finale – che è esasperazione per chi ci pensa veramente -, da sola la ragione genera un uomo disperato. L’ultima cosa che può fare oltre questa, la rottura della disperazione, è il grido dell’Innominato di Manzoni: “Quello che tu sei, chiunque tu sia, qualunque cosa tu sia, rivelati a me”.

E’ solo se il Mistero si comunica che l’uomo incomincia a conoscere qualcosa che non aveva mai conosciuto. Ed è conseguenza, allora, non dell’uso scaltro della ragione, ma dell’uso umile della ragione, del più umile uso della ragione che è là dove la ragione diventa bambino: frigna, chiede, domanda, cioè prega. La preghiera appartiene all’orizzonte culturale normale, naturale dell’uomo. Ma la preghiera è domanda al Mistero: che si faccia vedere, che si dica, che si faccia conoscere. E l’atteggiamento dell’uomo, per cui accetta e capisce sempre di più la risposta, si chiama fede.

Infatti, l’uomo dopo dice: “Adesso capisco!”. Per sé, con la ragione l’uomo non può arrivare a questo punto; ci arriva solo se accetta lo svelarsi che il Mistero fa di sé. “Come faccio a vivere avendo come scopo della vita qualcosa che non posso conoscere?”. E’ una posizione vertiginosa che l’uomo non può tenere. Per questo tutti cadono, di qui o di là, nella polvere o sui sassi, soffocando o spaccandosi le ossa.

Ma: “Dio, se ci sei, rivelati a me, comunicati a me!”, questa domanda è l’ultimo gesto razionale, corrispondente cioè alla realtà secondo la totalità dei suoi fattori. Uno dovrebbe stare lì fermo così, fermo tutta la vita così, a dire così, e sarebbe più calmo e più compiuto di qualsiasi uomo s’inquieti nella ricerca o nella pretesa. Improvvisamente allora avviene una parentesi e dice: “O bella!”. Quando ero ragazzo guardavo mio papà che cantava, con aria trasognata, e dicevo: “E’ matto mio papà”. E invece no: ripeteva con cuore, trasognato, certe cose che io non capivo. Così, la ragione che dice: “Mistero, chiunque tu sia, qualunque cosa tu sia, rivelati a me!”. E’ analogo, è una cosa analoga a quella di quando ero bambino. Un bambino, senza accorgersi, dice: “Tu, papà”, chiede, senza accorgersi di chiedere, qualche cosa che neanche il papà può sapere; ma chiede al papà. Quando uno chiede, dà del tu, in quanto suppone nell’oggetto della sua richiesta, nel termine della sua richiesta, nell’altro, suppone nell’altro la possibilità di qualcosa che lo soddisfi totalmente, che getti il ponte, che conchiuda l’avventura. La ragione, quando prega, può dire io perché è di fronte a un tu. Prima non c’è niente a cui la ragione dice “tu”. Niente, salvo quelle cose, deprimenti e fatte di detrimenti, che sono i rapporti tra l’uomo e l’uomo, l’uomo e la donna, compagni e compagne. L’io e il tu si trovano a questo livello. Ma si trovano come il sole che sorge all’orizzonte al mattino: come un crepuscolo, non si sa ancora cos’è.

Sesto. Così vanno al bar alla mattina a prendere il caffè, quei pescatori, Giovanni e Andrea… e sapete la storia del primo capitolo di Giovanni. Quello a cui pensavano in certi momenti, ma sbadatamente, senza coscienza netta, davanti a quell’uomo sono obbligati a precisarlo. Capiscono cosa vuol dire una cosa eccezionale – che pur risponde a loro -: “Non c’è nessuno come questo qui. E non c’è nessuno che risponda a quello che io desidero come quest’uomo. Risponde a quel che desidero e che neanche io capisco di desiderare: non saprei io dire quello che desidero come lui sa rispondere a quel che desidero”.

Gli dicono: “Ma come fai ad essere così?”. “E’ il Padre che mi dice queste cose. Io non faccio altro che ripetere quello che mi dice il Padre”. “Padre? Da dove vieni tu?”. “Da Nazareth”. “Ma no! Abbiamo visto tuo padre, tua madre, i tuoi fratelli. Dici delle cose che nessuno può dire! Va bene, lasciamola lì!”. Il giorno dopo vanno ancora, perché è troppa non tanto la curiosità, quanto la suggestività di quell’uomo, che anche sfoca tutto l’ardore di fronte alla propria moglie e ai propri figli; non perché sfoca, ma perché s’infoca la figura di questo altro senza nessun paragone.

Dopo un anno, due anni… compie una cosa dell’altro mondo: risuscita un morto! Fa venir giù dalle spalle dei barellieri il figlio della vedova di Nain. Quei due sono sbalorditi e “pieni di terrore”, dice il vangelo di san Luca – “pieni di terrore”: i suoi amici! -, gli domandano: “Ma senti, adesso diciamocelo tra di noi: tu vieni davvero da Nazareth? Da dove vieni? Chi sei? Non puoi essere figlio di Giuseppe e di Maria!”. E Lui dice: “A voi lo posso dire perché sarete provati: fra pochi giorni mi metteranno a morte”. Uno è lì che dà in escandescenze: “Ma sei matto? Piuttosto navigheranno sul mio cadavere prima che ti tocchino”. “Cosa? Tu, prima che il gallo canti due volte, tu mi avrai rinnegato tre volte”. Insomma: “Io e il Padre siamo una cosa sola. Senza di me non potete essere nulla”. Di Lui infatti tutto consiste; questa è la definizione del Mistero, perché del Mistero tutto è fatto, tutto è fatto di Mistero; tutto è fatto di quello lì!

Se il Mistero è la verità dell’uomo e come Mistero la verità non si può conoscere, se il Mistero coincide con quell’uomo lì, la verità è quell’uomo lì. Quid est veritas? Vir qui adest. Cos’è la verità (che è teorico, sarebbe un concetto teorico, la verità)? E’ questo uomo presente.

Questo è il salto mortale contro cui tutti gli uomini di questi secoli si sono ribellati. Non fu così per quelli dei secoli precedenti, molto più bambini e molto più artisti di loro, molto più uomini di loro – loro sono infatti identificabili facilmente con l’una o l’altra delle professioni o delle facoltà di università che hanno fatto, al massimo la loro sapienza si identifica con quella, con qualche ricciolo in più che loro ci aggiungono -. Non fu così per quelli prima di loro, fino al 1100, al 1200, per quella gente grandissima che ha riempito l’Europa di popolazione, sfidando i grandi forestoni di cui era coperta, non temendo le bestie umane che pullulavano in queste foreste, trasformando la belva umana in pacifica convivenza fraterna e l’istinto in amore, come quello tra l’uomo e la donna o tra amico e amico.

E poi – lasciamo stare prima del 1200 o dopo il 1200 – se uno dice così: o vuol ingannarti nel modo più pacchiano, più terribile, e dev’essere ammazzato – infatti! -, oppure ha ragione (cioè non ho nessuna ragione da opporre). Chi è costui? Debbo ripetere le sue parole, sono costretto a ripetere le sue parole, perché non ho nessun dato di esperienza da contrapporre alle sue parole. Ho soltanto dati di esperienza che preconfermano le sue parole: le confermano. E quanto più ripeto le sue parole, tanto più capisco. Come dice il racconto, insuperato come adeguatezza, del Re del Portogallo (andatelo a vedere nella Scuola di Comunità): quel personaggio strano che è andato in quel paese lì; lui era il più bravo di tutti; tutti lo trattavano male, perché era un estraneo; e lui trattava tutti bene, perché era un gentiluomo, un galantuomo; e tutti si domandavano, quando si radunavano all’unica osteria del paese alla domenica a giocare a tresette: “Ma chissà da dove viene quello lì, chissà chi è?”; e gli uni dicevano che era un ingegnere, gli altri dicevano un deputato, l’altro diceva che era un medico. Esattamente come risposero a Gesù i suoi apostoli: “Alcuni dicono che sei un profeta, altri un figlio del diavolo: fai le cose magiche come il diavolo…”.

La domanda cui si deve dare risposta viene ficcata dentro come la caratteristica fondamentale della tua responsabilità, come l’espressione suprema della tua umanità: “E tu, chi dici che io sia?”, “E voi, chi dite che io sia?”. E l’unica risposta è ripetere quel che Lui ha detto: “Sappiamo che sei Dio perché l’hai detto”. Infatti, nessuno può fare queste cose, se non Dio.

La ragione non sa il “come” sia, nello stesso tempo, uomo e Dio, ma risponde finalmente all’ultimo pertugio aperto, al sibilo: il Mistero è uno tra di noi. La verità, il Mistero è un uomo tra di noi: seguiamolo, e quanto più lo si segue, tanto più conosceremo la verità, e la verità ci renderà liberi.

Perciò la ragione, come cognizione corrispondente alle esigenze del cuore, di fronte a Cristo è premessa al problema vero. La premessa consiste nella constatazione che non c’è categoria che spieghi questo modo di fare. Per cui domandano – e fin qui tutto è razionale -: “Ma chi sei?”. La risposta supera ancora il senso di sproporzione che avevano, lo supera infinitamente. Ma loro non possono non ripetere quel che dice Lui, non possono non diventare testimoni di quel che dice Lui. Questo è il cristiano: il testimone di quel che dice Lui di sé. Perciò non è il teologo, ma è l’amico di quello lì: chi gli crede. Si crede per la testimonianza che ha dato di se stesso, e si accetta la sua testimonianza perché nessuno c’è che abbia fatto, sappia fare e dire cose come le ha fatte e dette Lui; non solo non è normale, ma umanamente è inspiegabile.

La fede afferma una cosa perché lo ha detto Lui. Punto fermo. E uno accetta razionalmente: è ragionevole che uno accetti una cosa perché l’ha detta Lui, in quanto è storicamente afferrabile e affermabile una eccezionalità di comportamento, una eccezionalità di performance, che non è reperibile da nessun’altra parte. Uno che dice: “Senza di me non potete fare niente”: è una bella presunzione! No: è la definizione di Dio, è la definizione del divino, non presunzione.

Intervento – Ma allora, che Cristo è Dio non lo affermo per dimostrazione diretta. E’ giusto dire che lo affermo con ragione perché mi baso su un’esperienza eccezionale?

La ragione non può dimostrare la divinità di Cristo, perché la divinità in quanto personalmente presente in una realtà umana non è oggetto proprio della ragione. La ragione può arrivare al fatto che si trova di fronte a qualcosa di eccezionale, non a chi è Gesù Cristo, non in quanto divino che si comunica all’umano.

Dire che oggetto della ragione possa essere la presenza del divino come tale, vuol dire che la ragione è capacità di conoscenza del divino, della natura del divino, di ciò di cui il divino è costituito? No, per questo ci vuole un’altra cosa. E’ l’oceano che l’Ulisse dantesco cerca di valicare, ma l’oceano lo mangia, perché è più grande del piccolo battello che usa per attraversarlo. Deve adottare il sistema di un’altra barca più grossa. E folle fu il volo di Ulisse, non perché pretese varcare l’oceano; fu folle perché pretese varcare l’oceano, riuscendoci, con gli stessi strumenti con cui conosceva il Mare Mediterraneo. Il Mare Mediterraneo è l’ambito della ragione, è il livello della realtà come ambito della ragione; l’oceano è il livello della realtà come sorgente di tutto, cioè il divino. Lì l’Ulisse dantesco, se tenta di penetrare, fa naufragio. Come abbiamo detto di tutte le religioni: tutte le religioni sono un tentativo d’attacco al Mistero, d’attacco non in senso negativo. Come se certe pareti del Cervino o del Monte Bianco fossero attaccate da un bambino di sei anni: non “è improbabile”, non può. A un certo punto c’è il giudizio: “Non può”. E non si deve aspettare che tutti i bambini di sei anni esistenti in tutta la storia del mondo abbiano fatto il tentativo per dire: “Nessuno è capace”. C’è una capacità induttiva che fa, di una certa molteplicità di segni, legge.

Comunque, per parlare della fede in Gesù bisogna tirar fuori l’umano: la fede in Gesù costringe a guardare all’umano in modo tale da conoscerlo come non si era mai conosciuto. Interessa tutto l’umano. Per questo, ad esempio, per capire quando dico che uno consacra la vita a Gesù, per capire quando parlo del di san Pietro, per il quale “l’amore della mia vita sei Tu, la mia vita sei Tu”, per capire cosa vogliono dire frasi di questo genere bisogna essere intenti alla propria esperienza di vita, bisogna vivere la coscienza dell’esperienza dell’amore. E se l’esperienza dell’amore in humanis sembra avere nel rapporto uomo-donna la sua espressione più suggestiva, non ultima ma più suggestiva, io debbo potere conoscere e approfondire il mio rapporto familiare con Cristo e la mia affezione a Cristo così da ritrovarci dentro a un altro livello, più profondo e più suggestivo, la suggestività dell’amore dell’uomo e della donna. Quando abbiamo spiegato il brano del vangelo in cui Andrea e Giovanni sono tornati a casa, non era eliminato niente ai loro rapporti, al rapporto di Andrea con sua moglie e i suoi figli: Andrea aveva trovato qualche cosa di più profondo, più vibrante, più suggestivo che provocava la sua affettività cento volte di più che sua moglie, che pure amava.

L’identità tra Mistero e segno di cui io parlo è una identità reale al suo vertice: pensate alla suprema attuazione di questo, che è l’Eucarestia; più identità tra Mistero e segno dell’Eucarestia non c’è. Dopo il mistero sacramentale tutto si svolge secondo una scala analogica, cioè in proporzioni diverse.

Una volta che si è arrivati alla fede, per addentrarsi nel Mistero, per addentrarsi nella conoscenza del Figlio di Dio, del Verbo o dello Spirito che fa il mondo, è ancora attraverso il meccanismo della ragione che la grazia dell’Essere agisce: la grazia, cioè il gratuito donarsi, il gratuito affacciarsi ai confini del reale umano usa della logica, della capacità critica, della capacità di sistematicità della ragione. E’ grazia questo potenziamento della capacità di conoscere della ragione che non è più come prima, è tesa da qualcosa d’Altro che la fa diventare capace di penetrare anche quest’Altro. Ché uno non saprebbe mai individuare o supporre certe cose in una certa persona, un uomo in una certa donna. Ma quando si è veramente incontrato col “tu” di questa donna, allora questa gli ha dato un contraccolpo di rispetto tremante e un dilatarsi, uno sfociare di abbandono e di sicurezza che prima non aveva neppure sognato. Una volta incontrato il tu, riconosciuto il tu, il tu resta principio di conoscenza e perciò principio di una ragione usata in un modo che prima non s’era potuto fare: prima non si sarebbe stati capaci di usare la ragione così.


2 Risposte

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  1. Poet 2 « Life said, on 19 agosto 2010 at 15:12

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